Frumento, farina, pasta…glutine e fake-news
Negli ultimi tempi si fa sempre più frequente la presenza di notizie sulla importazione di frumento (vero) e dei rischi di contaminazione del prodotto (allarmistico) con proliferare di disinformazione.
A) Bufale e slogan orecchiabili sull’uso di agrofarmaci, ma in realtà il grano duro, per motivi agronomici ed economici, si conferma coltura estensiva con scarsissimo uso di agrofarmaci che quando impiegati, si limitano quasi sempre a un solo trattamento diserbante selettivo, somministrato molto lontano dalla raccolta, non a base di glifosato, erbicida totale verso il quale nessuna varietà di grano presenta resistenze genetiche indotte (a differenza della soia).
B) Sovradimensionato allarme derivante dalle pur pericolose micotossine. Ma in Italia il rischio di contaminazione da deossinivalenolo (DON), la micotossina più diffusa nei frumenti, è obiettivamente basso, Grazie a tecniche analitiche sempre più capillari, il pur frequente riscontro di positività si accompagna però ad altrettanti bassi valori, lontanissimi dai già prudenziali limiti di sicurezza e non evidenzia nessuna pericolosità delle partite di granella e tanto meno può dar vita a sceneggiate mediatiche con l’esibizione rituale della fantomatica ‘prova’ di colpevoli importazioni.
Purtroppo l’Italia non produce abbastanza grano duro per soddisfare il fabbisogno dell’industria della pasta.
L’industria agroalimentare italiana della trasformazione esporta nel mondo circa 2 milioni di tonnellate di pasta. La diminuzione delle quotazioni internazionali delle materie prime agricole, legate alla globalizzazione dei mercati hanno favorito un crescente abbandono della coltura, anche se le produzioni medie nazionali si mantengono sostanzialmente stabili grazie al miglioramento delle rese unitarie (dati Istat).
Da alcuni anni, infatti, la produzione nazionale di grano duro si è attestata mediamente su circa 4 milioni di tonnellate, ma anche grazie al gradimento nazionale e al crescente apprezzamento sui mercati esteri, i molini e i pastifici hanno bisogno di volumi ben superiori, pari a circa 6 milioni di tonnellate. Il tasso di auto-approvvigionamento è perciò sempre più basso (60-70% negli ultimi anni) e la pasta italiana, eccellenza alimentare riconosciuta nel mondo, per mantenere l’elevato livello qualitativo e competere con l’agguerrita concorrenza internazionale, ha sempre fatto ricorso a integrazioni con grani esteri con un aumento dell’import, soprattutto dal Canada.
Queste condizioni determinano il comprensibile malcontento di migliaia di produttori agricoli che invece di essere incanalato nella ricerca di soluzioni tecniche, associative e accordi di filiera miranti alla miglior valutazione di grosse partite di qualità elevata e omogenea, spesso prende le scorciatoie della facile demonizzazione del grano d’importazione.
Il gluten free è ormai incontrollata moda mondiale, sebbene di nessuna valenza scientifica e utilità salutistica e nutrizionale, se non per quell’1% sfortunatamente affetto veramente da celiachia.
Da anni migliaia di lavori scientifici internazionali evidenziano le grandi valenze nutrizionali, salutistiche e dietetiche della pasta, ma basta una star hollywoodiana per allarmare le coscienze del mondo sulla indistinta pericolosità del glutine. Argomentazioni prive di alcun riscontro reale ma ricche di fascino diffuse da una rete incontrollata tendono a spostare furbescamente in rialzo questa percentuale per scopi puramente commerciali di preparazioni alimentari più costose.
Ad esempio l’ipotesi che la maggior incidenza della celiachia sia dovuta alla diversa composizione glutinica delle moderne varietà non trova conferma poiché non sono le glutenine responsabili della celiachia bensì le gliadine e le vecchie varietà, identificate col termine “antico”, contengono gliadine a volte anche più di alcune moderne (Ribeiro et al., 2016; De Santis et al., 2017).
E’ opportuno ricordare che il miglioramento genetico si è avuto sulle glutenine che conferiscono viscoelasticità all’impasto e non sulle gliadine, responsabili della sindrome autoimmune celiaca.
Circa l’origine della malattia celiaca sembra, da studi più recenti (gruppo di ricercatori dell’Università di Chicago e dell’Università di Pittsburgh), che sia innescata da un reovirus: quando il glutine viene introdotto per la prima volta nella dieta dei bambini, se è in atto un’infezione da questo tipo di virus, il sistema immunitario, ancora immaturo, “confondererebbe” la gliadina con il virus. La traccia che lascia il virus è permanente e in seguito il sistema immunitario tratterà il glutine non come una comune proteina alimentare ma come se fosse un pericoloso patogeno (Bouziat et al., 2017).
Anche la ‘gluten sensitivity’ o NCGS (sensibilità al glutine non celiaca), più recentemente WIS (Wheat Intolerance Syndrome, ‘more honest term’ secondo Guandalini et al., 2015), è argomento assolutamente non definito in ambito scientifico internazionale e persiste l’indisponibilità di un efficace e validato test diagnostico. Da studi recenti inoltre è emerso che a incidere in maniera importante sullo sviluppo dei sintomi sembrano essere anche i conservanti e gli additivi alimentari come glutammato, benzoato, solfiti, nitrati e i coloranti. Recente è anche l’ipotesi con sempre più riscontri che a scatenare i disturbi gastrointestinali non sia il glutine ma un gruppo di carboidrati, i cosiddetti FODMAP – ossia oligosaccaridi, disaccaridi, monosaccaridi e polioli fermentabili – presenti sì nei cereali, ma anche in alimenti come il latte, le mele, le cipolle e molti altri. ‘Graditi’ alla flora intestinale, con conseguente fermentazione, produzione di gas e di acidi grassi (Biesiekierski et al., 2013).
Infine, una menzione va fatta sull’effetto nocebo, cioè di quei casi in cui lo stesso paziente fa scatenare la reazione perché percepisce in anticipo come nocive le caratteristiche dell’alimento che sta assumendo (Zanini et al., 2015). In altre parole, forse la sensibilità al glutine esiste, ma riguarda una piccola percentuale di persone, mentre il 95% dei soggetti che sostengono di essere sensibili sono probabilmente vittime dell’effetto nocebo. La maggior parte dei pazienti, infatti, mostra gli stessi sintomi sia assumendo il glutine sia il placebo (amido di riso) (Di Sabatino et al., 2015).
In corsivo fonte: Fabrizio Quaranta (ricercatore agronomo) – ilfattoalimentare.it